Il ‘primo’ Ospedale San Matteo: i principi ispiratori per una buona sanità

“Questo ospedale non è stato da noi ideato e costruito per accogliere e aiutare indistintamente i deboli, i pellegrini, i poveri, i malati incurabili e le persone molto anziane. Il nostro ospedale è stato fondato e istituito perché in esso vengano accolti e vi rimangano esclusivamente quei malati che, a giudizio veritiero e affidabile dei medici, possono essere curati e guariti grazie alla somministrazione di farmaci adeguati”

È tutta qui la ‘filosofia ospedaliero-sanitaria’ di Domenico da Catalogna, frate domenicano, ideatore, promotore e fondatore dell’Ospedale San Matteo o della Pietà: era il 29 giugno del 1449 quando fu posta la prima pietra, là dove sorgeva il monastero benedettino di San Matteo (da cui ebbe nome l’ospedale), dove è oggi il complesso universitario del Salone di Storia dell’Arte, di un’ala della Facoltà di Scienze Politiche e delle Aule Forlanini, Disegno e Quattrocento con i cortili attigui. E qui rimase per lunghi cinque secoli.

La cura agli infermi è diventata, da subito, prerogativa principale dell’attività svolta dall’Ospedale nel quale si privilegia in modo esclusivo il momento terapeutico. Gli Statuti dell’Ospedale fissano infatti nell’infermità curabile il requisito essenziale per l’ospedalizzazione. Nessuna deroga è ammessa, anche quando a chiederla è l’autorità religiosa o laica. Al San Matteo può essere ricoverato indistintamente il ricco, il povero, il nobile, il plebeo, l’indigeno e il forestiero, da qualunque parte essi provengano.

Un’ulteriore prova della volontà dei vertici dell’ente di potenziarne al meglio la funzione terapeutica è sicuramente la scelta precoce di attivare all’interno dell’ospedale un servizio farmaceutico efficiente, con una farmacia ben fornita di medicinali per provvedere alle necessità dei ricoverati.

Il nuovo ente di ricovero e cura, che si inserisce in un vasto movimento di ‘riforma ospedaliera’ di metà Quattrocento nell’Italia centro-settentrionale, fu realizzato con il pieno appoggio dell’autorità laica ( Francesco Sforza non ancora duca ma aspirante al ducato di Milano, i vertici della città) ed ecclesiastica ( il papa, il vescovo) con il coinvolgimento di tutta la cittadinanza chiamata su sollecitazione di fra Domenico a una obbligatio generalis ( una grande raccolta di fondi): L’idea partita da fra Domenico prese corpo grazie alla ferma volontà dei membri di una confraternita laicale costituitasi nel dicembre 1448 proprio con la finalità di fondare l’ospedale. Tra i soci figurano rappresentanti di famiglie nobili ed esponenti della ricca borghesia pavese, in sintonia con il movimento di laicizzazione che nel settore dell’assistenza si era venuto affermando a partire dal XIV secolo. A Pavia la volontà di imporre e salvaguardare la laicità dell’istituzione è stata costantemente affermata, anche nel testo degli Statuti redatti dallo stesso fra Domenico durante il suo soggiorno pavese.

Il dettato statutario è organizzato per capitoli e diviso in tre parti, che trattano rispettivamente dell’ordinamento della confraternita, delle regole che devono essere seguite dal personale addetto ai malati e delle norme da osservarsi da parte delle ‘dedicate’. Esso rappresenta un microcosmo di saggezza gestionale e amministrativa che per molti aspetti ha valore ancora oggi.

La ‘pietas’ latina, che è l’insieme dei doveri che l’uomo ha verso gli uomini, trova qui la sua migliore espressione essendo indirizzata verso i deboli, i sofferenti, i malati, come recita l’epigrafe sottostante il rilievo della Pietà posto sulla facciata dell’edificio quattrocentesco.

E proprio lo schema iconografico della Pietà che rappresenta il Cristo morto sorretto dalla Vergine e da San Giovanni, in una versione ‘minore’ con la sola figura di Cristo, è stata scelto per essere, nei secoli, il simbolo dell’Ospedale. E lo è ancora oggi a testimonianza che lo spirito cristiano e la carità evangelica che, cinque secoli fa, hanno guidato Domenico da Catalogna alla fondazione dell’ente ben si incontrano e si integrano con le motivazioni filantropiche laiche e con le conquiste tecnologiche e scientifiche dei tempi moderni.

L’originario impianto architettonico prevedeva una struttura a crociera: i quattro bracci della croce erano le corsie per i malati e al centro era posto l’altare, in posizione idonea per consentire ai degenti, tutti allettati, di partecipare alle funzioni religiose perché, secondo l’ideologia medievale della sanità, la cura del corpo andava di pari passo con la cura dell’anima. In una sintesi tra corpo e spirito che trova espressione plastica in quella splendida decorazione pittorica che trova posto nel soffitto con oltre 1600 tavolette lignee recanti ciascuna un busto d’angelo o testine di angeli di eccellente levatura qualitativa, come il fondatore aveva voluto invitando gli amministratori dell’ente a fare sì che“l’infirmaria splendisca come il cielo stellato in una notte serena”.

Dall’edificio quattrocentesco si è passati a strutture più ampie e meglio organizzate anche grazie agli interventi progettati nel secolo XVIII dagli architetti Giuseppe Piermarini e Leopoldo Pollac.

Mette conto ricordare che, allora come ora, molti medici del San Matteo erano lettori cioè professori di medicina e chirurgia all’Università di Pavia e non pochi erano di chiara fama e tra i più richiesti sul mercato. E questo grazie a un rapporto tra Università e San Matteo che è stato nei secoli – e continua a essere – fortissimo e proficuo, potenziato anche dalla attiguità delle sedi.

Renata Crotti