La demolizione della Chiesa di Sant’Eusebio
Le vicende della distruzione della chiesa di Sant’Eusebio – sita a ridosso dell’Ospedale San Matteo, sconsacrata e adibita dal 1815, in seguito al progetto di ristrutturazione redatto dall’ing. Francesco Capsoni, a ricovero per persone affette da malattie veneree – avevano preso le mosse nell’immediato anteguerra, in conseguenza del piano per la costruzione del Palazzo Postelegrafonico e per il riassetto di tutto quell’isolato. Per aprire una piazza e far comodo spazio intorno all’erigendo fabbricato e ai moderni servizi ad esso collegati, infatti, nel 1913 si era già previsto di abbattere alcuni edifici civili (la casa Ghislanzoni) e l’antica chiesa di Sant’Eusebio, riformata nel XVIII secolo ma allora assai degradata (nei documenti è definita un “rudere”) tanto da essere adibita a laboratorio di falegnameria –con deposito di legname sotto la cupola – dei fratelli Zadra.
Al proposito di demolizione si era opposta la Soprintendenza alle Belle Arti, che nel 1915 aveva autorizzato la vendita della chiesa da parte dell’Ospedale al Comune all’espressa condizione che la stessa non fosse demolita e che anzi fosse programmato un intervento di restauro architettonico e valorizzazione dei prospetti esterni, a vantaggio del complesso urbanistico: pur nell’”odierno squallido disordine” – sottolineavano l’arch. Annoni del Ministero e il Soprintendente Brusconi – la chiesa rivelava “il chiaro e ben scompartito organismo della propria unica nave architettata alla barocca e ravvivata da morbidi stucchi settecenteschi” e la cupola ellittica e il catino absidale ancora mostravano le tracce di antichi affreschi. Di diverso avviso la Società per la Conservazione dei Monumenti d’arte cristiana, che per bocca del suo Presidente ing. Campari aveva bollato come “feticismo architettonico a qualunque costo (…) in aperta contraddizione colle impellenti esigenze del progresso economico e civile” la sussistenza dell’ingombrante chiesa nell’attuale sua veste tardobarocca, e che dunque ne auspicava il sacrificio, solo salvando la sotterranea cripta longobarda, dichiarata monumento nazionale.
Lo scoppio del primo conflitto mondiale aveva interrotto i programmi dell’Amministrazione comunale circa la sistemazione dell’isolato intorno all’Ospedale, programmi ripresi nel 1919 quando si avviarono i lavori per il nuovo palazzo postelegrafonico, su progetto in stile ”neomedievale lombardo” rivisto dall’ing. Modesti: allora, il problema della sussistenza o meno di Sant’Eusebio (o di un suo parziale inglobamento nel nuovo fabbricato) sembrò configurarsi quale braccio di ferro tra l’autorità statale – con ripetute diffide della Soprintendenza – e l’autonomia decisionale della città, sostenuta a suon di interpellanze dall’onorevole Rampoldi.
L’infuocato dibattito tra Consiglio Superiore delle Belle Arti e Comune di Pavia si protrasse ancora qualche mese sino a quando, per un “equivoco” nelle direttive date e male intese – così almeno si giustificò l’Amministrazione da poco rinnovata –, gli operai dell’impresa che lì operava procedettero di fatto all’abbattimento dei muri perimetrali della chiesa. Al Ministero non rimase che chiedere con urgenza la stesura di un progetto di copertura e salvaguardia della cripta, il cui accesso da principio avveniva proprio attraverso il cantiere del nuovo palazzo delle Poste.
Susanna Zatti