La rivoluzionaria Clinica ostetrico-ginecologica pavese

Condannate inesorabilmente dal destino. Quando il bacino era troppo stretto e il canale del parto angusto la donna era quasi invariabilmente destinata a una morte atroce. Il taglio cesareo non permetteva infatti di salvare nello stesso momento la madre e il bambino. Le donne obbligate all’intervento morivano quasi sempre per emorragia uterina oppure per sepsi causata dalle tremende infezioni che insorgevano a partire dalla sede dell’intervento. Come aveva scritto Luigi Mangiagalli nel 1905, “non una madre era stata salvata in un secolo col taglio cesareo” nella Clinica ostetrica di Pavia. Una tragica situazione comune all’esperienza di ogni ostetrico in qualsiasi parte del mondo.

Questa era dunque la fosca sorte di molte donne che per malnutrizione e rachitismo avevano non infrequentemente il bacino deformato e la pelvi tanto ristretta da impedire la progressione del feto al momento del parto. Per un medico essere chiamati ad assistere una gravida in quelle condizioni fisiche significava entrare in un incubo a causa della consapevolezza di non poter fare nulla per ribaltare un dramma provocato, paradossalmente, proprio da una nuova vita che stava nascendo. Le cronache cliniche di tutte le epoche, fino alla seconda metà dell’Ottocento, sono piene di descrizioni agghiaccianti, di vite distrutte, di sconvolgimenti familiari.

Poi, nel maggio 1876, una nuova speranza si diffuse dall’Ospedale di San Matteo in tutto il mondo. Edoardo Porro, professore di ostetricia nell’Università di Pavia, aveva messo a punto una nuova tecnica operatoria che permetteva di porre all’ordine del giorno la possibilità di salvare, non soltanto il bambino, ma anche la madre. Si prospettava così la possibilità di superare il paradosso di una nuova vita, possibile soltanto con la morte della donna che la generava. Punto di partenza dell’innovazione di Porro fu la constatazione che, nel taglio cesareo tradizionale, era l’utero lasciato in sede la fonte delle emorragie e dei processi settici fatali. Di conseguenza le possibilità di salvare entrambi gli attori del parto, madre e bambino, erano legate all’asportazione della “massa utero ovarica” subito dopo l’estrazione del nascituro. L’occasione di verificare questa intuizione si presentò nella primavera del 1876 quando Porro visitò Giulia Cavallini, una ragazza in avanzato stato di gravidanza che da poco aveva celebrato un matrimonio “riparatore” a Gambolò con un cantante pavese. La donna aveva malformazioni gravissime del bacino, un canale del parto insussistente e dunque il feto risultava “intrappolato in una prigione”. Il taglio cesareo era inevitabile, ma procedere secondo la tradizione voleva dire condannare la madre. Il 21 maggio 1876, al momento dell’intervento, Porro procedette applicando l’idea che aveva concepito per salvare entrambi: madre e bambino. Dopo il taglio cesareo e l’estrazione di una neonata molto vitale, poi battezzata Maria Alessandrina Cesarina (quest’ultimo nome quasi inevitabilmente ci fa pensare a un omaggio di Giulia al tentativo operatorio di Porro), l’ostetrico procedette con determinazione al blocco della circolazione, con l’applicazione di un serranodi che stringeva il collo dell’utero, e all’asportazione della massa utero-ovarica.

Il successo dell’intervento cambiò la storia delle donne. Da quel momento passò all’ordine del giorno della pratica ostetrica la possibilità di programmare un’operazione in grado di salvare, non solo il bambino, ma anche la madre. Questa rivoluzione prima di tutto concettuale, oltreché della tecnica chirurgica, fu probabilmente l’innovazione terapeutica più importante – accanto all’invenzione del pneumotorace artificiale per il trattamento della tubercolosi polmonare – nel lungo percorso della medicina in Lombardia. Ma molti altri sono gli aspetti rilevanti della storia dell’ostetricia pavese fino ai nostri giorni, durante la quale emersero molti protagonisti di indubbio prestigio internazionale. Basti ricordare il nome di Luigi Mangiagalli, che nell’Università sul Ticino si era laureato diventandone poi professore di ostetricia, primario del San Matteo e, in seguito, fondatore della clinica ostetrica a lui intitolata a Milano.

Questa raccolta fotografica cristallizza in maniera suggestiva, in termini iconografici, una serie di testimonianze visuali sulla clinica ostetrica pavese raccolte con competenza e precisione dalle curatrici. Immagini dal grande valore storico e documentario, ma anche vie privilegiate per immergersi in periodi emozionanti di una grande storia scientifica e accademica di cui viviamo l’eredità ancora al giorno d’oggi.

Paolo Mazzarello