Palazzo Brambilla
La casa da nobile, acquista dal Brambilla nel 1784 (notaio Camillo Giordani) venne ricostruita in forme neoclassiche, verosimilmente con la supervisione dell’eclettico dilettante di architettura marchese Luigi Malaspina di Sannazzaro. A luglio 1786 risale il contratto d’appalto (notaio Siro Quarti) con il marmorino Silvestro Rossi e il capomastro Giovanni Bottelli che avrebbero dovuto ultimare i lavori entro settembre 1787 con il collaudo e l’approvazione dell’ingegnere pavese Giuseppe Ravazza e dello stesso marchese Malaspina.
L’elegante prospetto neoclassico si caratterizza, nell’ordine inferiore, per la presenza di un’alta fascia a bugnato lieve – in cui si aprono cinque mostre d’archi corrispondenti al portale centrale e alle vetrine delle botteghe, ospitate da sempre nel palazzo – su cui poggiano, al piano nobile, che accoglie sale di rappresentanza, paraste dal capitello ionico, binate agli estremi che si alternano a finestre sormontate da timpano con parapetti a balaustra. Il balcone al centro della facciata è un’aggiunta del 1807. Nello scatto sono ben visibili le due aperture centinate del Consorzio Agrario di Lodi, Milano, Pavia (come si legge sulle lunette in vetro e si evince dai sacchi di iuta esposti in strada) e più oltre le vetrine del Bar Internazionale o International, ritrovo di studenti e docenti universitari.
Le sale interne della nobile dimora furono decorate da Paolo Mescoli (notizie dal 1782) – artista noto in città al quale si devono anche gli affreschi dell’Aula Foscoliana (1782-1783) – con quadrature neoclassiche. Nel 1828 venne aggiunto un nuovo apparato decorativo interno dal pittore, architetto milanese Alessandro Sanquirico (1777-1849), scenografo del Teatro alla Scala di Milano dal 1817 e ideatore della maggior parte degli apparati effimeri allestiti nella Milano napoleonica e asburgica in occasione di prestigiosi eventi celebrativi pubblici.
L’importanza del palazzo viene ribadita anche dall’ospitalità offerta ad alcuni illustri personaggi quali Antonio Scarpa, Alessandro Olevano e Vincenzo Monti, il maggior esponente della letteratura neoclassica in Italia, che vi abitò dal 1802 al 1804, quando tenne la cattedra di eloquenza nell’Ateneo pavese.
È attualmente sede della Fondazione Banca del Monte di Lombardia.
L’Ateneo custodisce altri ricordi di Alessandro Brambilla: in Rettorato un ritratto a mezzo busto del protochirurgo, un olio su tela di fine XVIII secolo, dipinto da Johann Heinrich Tischbein, acquistato dall’Ateneo nel 1948 (ASUPv, Consiglio d’amministrazione, reg. 3642); in Aula Scarpa il busto marmoreo all’antica del medico pavese, affiancato da quello di Giovanni Pietro Frank (di Franz Anton von Zauner, 1789), su basi invertite; inoltre in una nicchia al primo piano del lato sud nel Cortile delle Statue il busto togato di Giovanni Alessandro Brambilla, scolpito in marmo statuario apuano bianco levigato. Il Museo per la Storia dell’Università espone il suo prezioso strumentario chirurgico.
Approfondimento
Giovanni Alessandro Brambilla (1728-1800). La chirurgia tra Vienna e Pavia
La chirurgia che, a partire dal Medioevo, aveva cominciato a essere considerata una semplice e poco onorevole attività meccanica, umile sorella della nobile arte della medicina, cambiò volto nell’Europa della seconda metà del Settecento.
I chirurghi videro delinearsi sempre più nettamente il loro mestiere, che finalmente prendeva le distanze da quello dei barbieri – ai quali era consentita in molte occasioni la pratica dei salassi e di piccoli interventi – e acquisirono progressivamente una migliore istruzione e un più elevato prestigio sociale, lungo un percorso che avrebbe portato alla professione del medico-chirurgo.[1]
Un contributo importante a questa evoluzione venne offerto, tra Pavia e Vienna, da Giovanni Alessandro Brambilla che, formatosi in gioventù presso l’Ospedale San Matteo di Pavia e in seguito arruolatosi nell’esercito asburgico come semplice chirurgo minore divenne, dopo una brillante carriera, protochirurgo delle armate austriache (1778), una carica che poneva, di fatto, sotto la sua giurisdizione tutto il personale medico militare. Brambilla fu inoltre chirurgo personale dell’Imperatore Giuseppe II, Consigliere aulico e Preside perpetuo dell’Accademia medico-chirurgica, fondata a Vienna nel 1785 con il nome di Josephinum, in onore del Sovrano.[2]
A Pavia restano molte testimonianze materiali del suo lavoro: una preziosa collezione di strumenti chirurgici, copia, in scala minore, di quella realizzata per l’Accademia viennese e pensata per l’addestramento degli allievi in ogni tipo di operazione in uso a quel tempo, una ricca biblioteca donata all’Ospedale di Pavia per offrire ai praticanti la possibilità di approfondire le proprie conoscenze e un lungo manoscritto, oggi conservato in due principali redazioni nella nell’Archivio Storico Civico di Pavia, che costituisce una sorta di diario professionale. In esso Brambilla, in età ormai avanzata, amareggiato da contrasti e inimicizie, ripercorreva le tappe della sua carriera e del lungo e difficile lavoro speso al servizio del Monarca e delle sue truppe.[3]
Lo stile dell’autore è solitamente misurato, attento a descrivere con chiarezza le difficoltà organizzative, il proprio impegno, le soluzioni escogitate per far funzionare al meglio una macchina complessa come quella della sanità militare. Traspare però costantemente anche un aspetto più emotivo legato alla professione del chirurgo, a partire dalla presenza costante di scelte lessicali che alludono al dolore dei pazienti. Il termine collettivo umanità è accompagnato in oltre i due terzi delle occorrenze (26 su 40) da aggettivi quali sofferente, sofrente, misera e languente. Emergono così in maniera vivida e drammatica l’asprezza della vita nell’esercito, la miseria, le terribili condizioni dei soldati feriti.
Originario di San Zenone Po e probabilmente appartenente a una famiglia della borghesia, Brambilla non aveva forse gli agganci nobiliari che avrebbero potuto aiutarlo a diventare medico. Aveva però svolto, tra il 1747 e il 1752, una pratica presso l’Ospedale di Pavia che gli aveva consentito di arruolarsi nell’esercito asburgico entrando a far parte dei sottochirurghi, un ruolo che all’epoca annoverava personale inesperto, poco stimato e mal pagato, che spesso non era neppure in grado di mantenere in buona condizione gli strumenti per le operazioni, accontentandosi di lame poco affilate e materiali di scarsa resistenza. Nonostante diversi tentativi di riforma, gli ultimi dei quali progettati dall’autorevole Gerard Van Swieten, medico personale di Maria Teresa e dei suoi figli, protomedico, bibliotecario e preside perpetuo della Facoltà medica, la sanità militare era ancora, all’epoca dell’arruolamento di Brambilla, estremamente carente. Si trattava di un problema complesso, forse ancora più difficile da affrontare per chi, come il medico olandese non aveva lavorato sui campi di battaglia e – notava Brambilla – «non aveva in chirurgia verun esercizio ne esperienza» e «in tutto cio che faceva o ordinava […] dava a conoscere, di non intendere cosa fosse ordine militare, e miseria».[4]
Persisteva una divisione, netta ma difficile da conservare durante le campagne militari, tra gli interventi consentiti ai soli medici e quelli che anche chirurghi potevano effettuare. Questi ultimi, in teoria, non avrebbero dovuto prendere iniziative autonome, se non in pochi casi ben definiti e non potevano somministrare farmaci. Tuttavia, sui campi di battaglia, si trovavano spesso soli a fronteggiare situazioni di fronte alle quali erano sostanzialmente impreparati. Talvolta poi trascuravano i soldati del loro reparto per dedicarsi alla pratica privata, arrotondando in questo modo lo scarso stipendio, per mantenere sé stessi e la propria famiglia; in altri casi era la stessa disciplina dell’esercito ad allontanarli dalla cura dei pazienti, con le estenuanti esercitazioni con lo schioppo e le durissime punizioni corporali che non risparmiavano nemmeno le mani dei chirurghi.
Nelle spezierie militari, inoltre, i medicamenti spesso mancavano, o erano di scarsa qualità, a causa dei trasporti costosi e malagevoli, della difficoltà nella conservazione dei materiali e del rischio di frodi da parte di speziali senza scrupoli sui quali non si era in grado di esercitare un controllo.
Questa era la situazione, raccontava Brambilla nel suo scritto, in cui si era affrontata la guerra dei sette anni, durante la quale il chirurgo italiano aveva potuto mettere alla prova la sua abilità, lavorando nel reggimento del celebre e esigente Franz Moritz Lacy. Al termine del conflitto Brambilla non era più un oscuro chirurgo dell’esercito. La sua opera venne richiesta a Vienna, al servizio della guardia nobile imperiale, poi, dal 1764, delle Loro Maestà Imperiali e, in particolare, dell’arciduca Giuseppe che dal 1765 sarebbe stato associato al trono con la madre, Maria Teresa.
Allevato fin dalla più tenera età per essere a capo dell’esercito imperiale, Giuseppe lavorò con decisione alla riforma dell’organizzazione militare, ivi compresa la sanità. Anche Brambilla era un militare: pur affrontando argomenti di carattere prettamente sanitario non dimenticava mai la peculiarità della vita dei soldati, l’organizzazione dell’esercito e le asprezze delle campagne. Le circostanze erano quindi favorevoli all’instaurarsi di un rapporto di fiducia. Brambilla divenne per il futuro imperatore un consulente apprezzato in materia di sanità, accompagnandolo in tutti i viaggi intrapresi per conoscere i territori del dominio asburgico.
Le necessità della chirurgia militare, delle quali Brambilla poteva farsi portavoce, ben si sposavano con i progetti del monarca, che aveva in mente la formazione di personale non estremamente specializzato, medici generici in grado di assistere la popolazione in ogni tipo di occorrenza (naturalmente anche chirurgica) e di svolgere anche mansioni in qualche modo ‘amministrative’ che consentissero un costante monitoraggio sulla situazione sanitaria dei domini asburgici. Nell’ambito della sanità militare, sostenuto dalla fedele collaborazione di un chirurgo stimato che godeva della sua fiducia, l’impaziente monarca poteva procedere speditamente, creare un ‘proprio’ territorio – sottoposto all’amministrazione militare – nel quale avrebbe potuto mettere velocemente in pratica i suoi desideri e idee in materia sanitaria, senza tenere conto, ad esempio, della possibile ostilità della più tradizionalista Facoltà medica viennese.
Brambilla accompagnava Giuseppe ai campi, visitava gli ospedali e gliene faceva rapporto. La situazione era spesso desolante.
I Militari – sosteneva però – benché per dovere […] debbano per la Patria e pel Monarca esporsi a qualunque pericolo fino a perdere la vita, ciò non ostante amano anch’essi di vivere, e perciò bramano d’avere ottimi chirurghi che gli assistino nelle loro malattie e ferite. Dichiaratasi la pace nel 1763 desideravano quindi che si pensasse a stabilire una buona scuola chirurgica e a sistemare meglio gli spedali militari, e pel tempo di pace, e guerra.[5]
Al problema dell’organizzazione degli ospedali militari Brambilla dedicava un intero capitolo del suo scritto, l’unico che vide le stampe, come opera indipendente, nel 1800. Dalla sua descrizione emerge un quadro di impressionante drammaticità.
Nella Guerra dei sette anni – raccontava – si sono presi senza riserva i migliori e più vasti Palazzi e Conventi fuori della Città per formarne Spedali. Il più grande dell’Armata era stabilito nella Casa degli Invalidi vicino a Praga, ben situata e ventilata da tutte le parti. Le stanze erano alte, larghe e lunghe, ma assai mal costrutte per gli Invalidi, e peggio per gli Ammalati […] Nel mezzo formavano una specie di Sala lunga e stretta, perché nelle due parti collaterali vi erano come due gallerie sostenute da tre o quattro arcate. Sotto e sopra di queste e nel mezzo vi erano letti da due persone. Ogni stanza conteneva cinquanta o sessanta Ammalati. Erano assai oscure, perché non avevano che una finestra nel mezzo, dirimpetto alla porta. Non si potevano riconoscere gl’Infermi e Feriti, e non si potea fare la menoma operazione senza il lume di candela. Non vi erano finestre doppie. E perciò nell’inverno tutti i muri erano bagnati di vapore. Non essendovi allora idea alcuna di ventilazione per rinnovare l’aria, nell’entrarvi sentivasi un puzzo orribile, ed un’aria così pesante, che levava il respiro. Le febbri putride, le petecchiali, e lo scorbuto vi regnavano a segno, che la mortalità era enorme. […]
Essendo io stato allevato negli Spedali, e avendoli diretti per molti anni, per necessità ho dovuto acquistare cognizioni pratiche, cosicché l’esito fortunato delle mie cure durante la Guerra dei sette anni mi raccomandò presso la Corte Imperiale, e però alla pace fui dichiarato Medico-Chirurgo Primario della Guardia Nobile Imperiale, e l’anno seguente, cioè nel 1764, Chirurgo delle LL MM II.
Ne’ primi miei viaggi con S.M. l’Imperatore Giuseppe II per la sua Monarchia e agli accampamenti militari, che si facevano nell’estate, dovevo visitare gli Spedali col Monarca stesso, che voleva essere informato di tutto, ed era veramente necessario ch’Egli fosse testimonio oculare dei disordini, che vi regnavano. […][6]
Anche la situazione dell’ospedale militare di Gumpendorf, sobborgo di Vienna, stabilito nel 1769 per interessamento di Lacy, e che Brambilla aveva successivamente visitato (nel 1770 o nel 1772), era insostenibile
Nel momento stesso, in cui si aprivano le porte all’entrare nelle Sale degli Ammalati, accorgevasi che l’atmosfera di esse era più o meno pesante, densa e puzzolente. Gli Ammalati erano confusi insieme, e non vedevasi separazione veruna secondo le classi diverse delle malattie. Non trovai separati che i venerei. I letti in tutto lo Spedale erano posti confusamente e senz’ordine, ed in quasi tutti vedevasi più di un Ammalato e spesso di malattie di genere diverso, come pure l’infermo pericoloso con quello di malattia leggiera. […]
I lenzuoli, ed il suolo delle Sale si vedevano macchiati di sangue, e di marcia e d’altre immondezze. Gli abiti de’ Soldati ammalati, essendo di lana, ed appesi sopra i letti a rastrelli di legno tutto al lungo delle Sale, venivano impregnati d’aria mefitica e corrotta, e questi istessi abiti si doveano riprendere e rivestire da’ Convalescenti, onde anche dopo sortiti all’aria portavan essi, ove andavano, un puzzo stomachevole. Era cosa assai rara, che si nettassero i pavimenti d’asse, e si sbiancassero le Sale. I vasi pel cibo, e per le bevande degli Infermi, e gli orinali erano di terra ordinaria, d’ogni sorta e misura, e rare volte questi ultimi si pulivano, e con difficoltà per la loro ruvidezza. Non v’era idea di dare sputarole. Se il Medico o Chirurgo aveva qualche tisico, per cui s’interessasse, somministravagli uno di que’ vasi di terra, in cui soleva prendere la zuppa. Vedevasi nel Cortile sangue umano e di bue senza precauzione veruna di seppellirlo, né di gettarlo altrove in luogo lontano. Si faceva alcune volte nelle stanze degli infermi un profumo di semente o legno di ginepro, che poteva bensì togliere il fetore, ma non era bastevole a correggere la qualità nociva dell’atmosfera corrotta, per cui fa d’uopo la rinnovazione dell’aria pura e fresca.
Su questi rilevanti disordini fui obbligato a farne rapporto a S.M., ed al Presidente del Consiglio di Guerra. […][7]
Il rapporto di Brambilla ebbe gli effetti sperati e presto cominciarono a essere attuati alcuni interventi caldeggiati dal chirurgo italiano, disposto anche a sostenere in prima persona alcune delle spese necessarie.
Ordinò subito che si cambiassero le finestre, in modo da potersi aprire per ventilar le Sale nelle giornate di sole, e meno fredde. Si separarono gli Ammalati di malattie esterne, i Venerei, e gli Scabbiosi, che d’ordinario erano confusi insieme, ma non si poté ottenere una ragionevole e vera separazione, perché i letti erano occupati da due persone, e ristretto era allora il fabbricato. […]
Convinta S.M. I. de’ vantaggi della separazione degli Infermi secondo le classi, ordinò, che fosse allargato lo Spedale, ed i letti fossero fatti per una persona sola, dove prima essendo due ammalati in un sol letto, si trovava il Convalescente col morto, e gli Scabbiosi comunicavano il lor male a chi non l’aveva.
[…] Si costrussero conseguentemente di cotto in Gumpendorf due ali collaterali unite al fabbricato vecchio a due piani, ciascheduna con tre grandi e spaziose Sale, di modo che esse essendo dodici potevano capire comodamente altri Seicento Ammalati. […]
Ad oggetto di tenere i letti l’un dall’altro lontani, feci formare a mie spese due Cassette larghe due piedi e mezzo geometrici, per fissare la distanza de’ letti, laddove questi prima si mettevano vicini, o confusi nelle Sale. Feci levare i rastrelli di legno, a cui appendevansi gli abiti, e feci questi collocare in queste Cassette divise in due piani, acciò il superiore servisse per gli abiti, e l’inferiore per le scarpe e gli stivaletti, e chiuse amendue a chiavistello, acciò non venga ivi rubato denaro od altro, se ne affidarono le chiavi ad un Capo-Chirurgo, o al Basso Ufficiale assegnato allo Spedale. Queste Cassette poi servono anco di tavola per sovrapporvi le medicine, le bevande, ed altri vasi bisognevoli. […]
Pregai il Monarca di ordinare letti di ferro per questo Spedale, perché più puliti, e di maggior durata, ma siccome Egli bramava di aver tutto all’istante, non potei ottenerne la grazia, onde si fecero di legno inverniciati ad olio. Bramavo che fosser cangiati anche i Materassi per maggior comodo e pulizia […] ma il Consiglio di Guerra rilevò che la spesa sarebbe stata grande, e addusse inoltre che i letti militari di Munizione non si dovevano migliorare, perché i Soldati vi si erano accostumati, essendo comunemente Uomini ruvidi, e per la maggior parte contadini, i quali in Germania, se non sono maritati, non dormono che sulla paglia, o sul fieno, ed anche per terra. […] Si sono per questa ragione conservati i letti di Munizione per una persona sola, composti di un pagliariccio con un materasso di lana, e due coperte. […]
Essendosi allargato lo Spedale, si poterono ogn’anno sbiancare le Sale, e lavare i pavimenti di asse, trasportando gli ammalati da una Sala all’altra, lasciandola asciugar bene avanti di rimettervi gli Ammalati. Marciva sovente la paglia sotto gl’Infermi e perciò introdussi l’uso di cangiarla ogni mese, e abbisognando anche più spesso, e con le coperte insieme e i lenzuoli. Qualora uno moriva o sortiva dallo Spedale, tutto il letto doveva regolarmente esser cangiato. […]
Non si era mai fatto uso d’alcuno Scaldaletto in sollievo de’ poveri Ammalati con brivido febbrile, costretti perciò a corcarsi nelle fredde lenzuola, e così per quelli, che sudavano, o sortivano dal letto per cangiar camiscia, o per altro bisogno, ciò che doveva esser loro di danno. Introdussi gli Scaldaletti di rame, e le Macchinette di latta con lucerna da tenersi presso il letto degli Infermi aggravati giorno e notte, per i decotti caldi, le misture e i brodi massime per l’Inverno.
Per impedire che gli Infermi non fossero incomodati dal lume vivo, ed immediato delle Lanterne, e acciò ammorzandosi, essendo nodrite d’un grasso ordinario, non cagionassero puzzo nelle Sale, le feci collocare ne’ corridori sopra le finestre, che corrispondono alle Sale. In questo modo si è risparmiata la metà de’ lumi, gl’Infermi hanno lume bastante per vedere senza incomodo, e sono esenti dal puzzo, allorché le Lanterne si estinguono.
Gli Unguenti, i Balsami e tutti i medicamenti per la medicazione si mettevano sopra un’asse entro vasi di terra d’ogni sorta, e senza coperchio. Si vedevano gli unguenti misti con pezzi di terra o di legno, con filaccia e coperti di polvere. Essendo in libertà d’ognuno i medicamenti, si rubavano agl’Infermieri e si vendevano. Per la pulizia e per la conservazione di questi medicamenti feci fare delle Cassette a due piani di latta, che si chiudon con chiave, in ogni Sala, dove trovavansi malattie chirurgiche, con vasi o alberelli di stagno per gli Unguenti, e Sciroppi, e per le Tinture, e i Balsami ed anche di cristallo, colle loro segnature sovrappostevi. La chiave si tiene dal capo-Chirurgo d’ispezione. Gli empiastri per la medicazione stesi sopra i pannilini, le compresse, i bendaggi, la filaccia, i piumacciuoli, e bordonetti si metton sopra Tazze assai larghe di ottone, e dopo la medicazione tutto si ripone sotto chiave nelle stesse Casse colorite in rosso, sopra le quali vengon posti gli unguenti. Queste C. A lato di queste Casse asse sono coperte di lastre di latta per potervi collocare gli scaldini con fuoco altre ve n’ha, sopra cui stanno appesi vasi di stagno con acqua, e al di sotto un recipiente, perché poi i Chirurghi, ed anco i Convalescenti posson lavarsi le mani.
Prima le filaccia e compresse immonde si gittavano sopra il pavimento di asse, e le marcie de’ grandi ascessi si raccoglievano sopra tela cerata e si ripulivano con stoppa. Feci fare Tazze egualmente di ottone come i bacini da barba, ed altre con spugne per lavare con acqua i contorni delle ferite e delle piaghe. Per impedire anche queste sporchezze, feci formare Cassette di ottone e di latta per riporvi le filaccia sporche di sangue o di marcia. Altre Cassette si fecero più grandi pure di latta per collocarvi le compresse e le fascie sporche, da consegnarsi immediatamente alla Lavandaja. […]
In questo modo si tiene purificata l’aria degli Spedali Militari senza aver bisogno di profumi d’incenso, o di ginepro, che ad altro non servono che a correggerne gli odori[8].
Nominato nel 1778 chirurgo primario delle armate austriache, e in seguito protochirurgo dell’armata, Brambilla si dedicò con impegno e determinazione alla riorganizzazione della sanità militare, partendo dalla preparazione e dal ruolo dei chirurghi dell’esercito. La fondazione dell’accademia medico chirurgica Josephina segnò un momento fondamentale e il coronamento di anni di lavoro, durante i quali erano stati progettati gli spazi più opportuni, la formazione dei futuri professori (alcuni promettenti chirurghi dell’esercito, inviati per due anni in viaggi di formazione che lo mettessero a contatto con le realtà più avanzate d’Europa),[9] l’organizzazione dei reclutamenti e degli approvvigionamenti per l’esercito. L’accademia, cui era annesso un nuovo ospedale militare, poteva contare su gabinetti scientifici con collezioni di strumenti chirurgici e modelli anatomici, una ricca biblioteca, un anfiteatro ben illuminato per le lezioni, un orto botanico e magazzini in cui venivano stoccate attrezzature pronte per essere inviate all’esercito e far fronte alle necessità che potevano presentarsi in tempo di pace e di guerra. L’organizzazione dell’Accademia prevedeva diversi livelli di formazione per i chirurghi maggiori e minori, comprendenti studio teorico, attività laboratoriale e pratica.
Oltre all’istruzione degli allievi e alle occupazioni dell’Ospedale militare, era previsto che all’Accademia si svolgesse un’attività più specificamente scientifica con la pubblicazione di lavori e l’assegnazione di premi. Lo sforzo economico richiesto dalle guerre che l’Austria di Giuseppe II affrontò tra la fine degli anni Settanta e gli anni Novanta avrebbe però ridotto di fatto la disponibilità di sovvenzionare questo aspetto della nuova istituzione.
Quando tutto fu organizzato, il 7 novembre 1785, ebbe luogo la solenne inaugurazione, con un discorso pronunciato da Brambilla stesso, l’Orazione sulla preminenza ed utilità della Chirurgia, nel quale si rivendicava l’unità inscindibile di due discipline, la medicina e la chirurgia, separate troppo a lungo.[10]
Nel frattempo il ruolo del personale medico e chirurgico, in pace e in guerra, era stato riorganizzato, anche per garantire migliori condizioni e maggiori possibilità di controllo. La nuova organizzazione sarebbe stata presto messa alla prova dalla guerra turca, un conflitto difficile dal punto di vista sanitario, con un numero di malati molto elevato e perdite pesanti. Prima che si giungesse alla pace, il Monarca era morto e Brambilla, all’Accademia, ne aveva pronunciato un accorato elogio funebre. Con grande commozione aveva ricordato l’impegno di Giuseppe II per nel migliorare le strutture sanitarie del suo impero. Gli ospedali potevano essere considerati, secondo il chirurgo pavese, «magnifici monumenti per la conservazione, o per sollievo della misera umanità», la cui utilità sarebbe durata «finche dureranno, ed esisteranno uomini sopra la terra».[11]
Dopo la scomparsa del Sovrano, però, Brambilla era sempre più difficile per tener salde le redini di una così complessa organizzazione. Negli anni di maggior potere si era naturalmente procurato dei nemici; in molti casi i suoi modi autoritari non gli avevano giovato e anche gli stessi professori dell’Accademia avevano cominciato a muovere alcune critiche al suo operato. Pesava inoltre, contro di lui, il grave bilancio della guerra turca. L’annoso problema degli approvvigionamenti e del sistema di distribuzione dei medicinali venne ripreso in esame allo scadere del contratto con l’appaltatore Natorp, nel quale Brambilla aveva riposto la sua fiducia. Si proponeva un radicale cambiamento con la costituzione di una Commissione appositamente deputata a preparare il piano per un nuovo assetto. Fu un duro colpo per l’anziano chirurgo. A suo modo di vedere – e non senza fondamento – era tutto il suo operato ad essere messo in discussione. Dopo il suo pensionamento, ottenuto nel 1795, molte modifiche investirono ciò che aveva creato, anche per quanto riguardava l’organizzazione dell’Accademia. Brambilla, frattanto, era tornato con la famiglia a Pavia, in una città che di lì a poco sarebbe stata travolta dagli eventi e dalle armate francesi. Trascorsi il biennio rivoluzionario e i mesi della reazione austriaca, la notizia di un imminente ritorno dei francesi dopo la vittoria di Marengo lo spinse a partire per tornare a Vienna. La morte lo colse durante il viaggio, a Padova, il 30 luglio 1800.
Maria Carla Garbarino
[1] Cfr. Elena Brambilla, Il sistema letterario di Milano: professioni nobili e professioni borghesi dall’età spagnola alle riforme teresiane, in Economia, istituzioni, cultura in Lombardia nell’età di Maria Teresa, a cura di Aldo De Maddalena, Ettore Rotelli, Gennaro Barbarisi, Il Mulino, Bologna 1982, pp. 79-169, Ead., Tra teoria e pratica: studi scientifici e professioni mediche nella Lombardia settecentesca, in Lazzaro Spallanzani e la biologia del Settecento. Teorie, esperimenti, istituzioni scientifiche, Atti del convegno di studi (Reggio Emilia, Modena, Scandiano, Firenze, Pavia, 23-27 marzo 1981), a cura di Giuseppe Montalenti, Paolo Rossi, Olschki, Firenze 1982, pp. 553-567, Paolo Mazzarello, Valentina Cani, Insegnare la medicina, in Almum Studium Papiense. Storia dell’Università di Pavia, vol. 2, t. 1, a cura di Dario Mantovani, Cisalpino, Milano 2013, pp. 259-290.
[2] Cfr. anche per quanto segue Giovanni Alessandro Brambilla nella cultura medica del Settecento europeo, Cisalpino – La Goliardica, Milano 1980, Faszination Josephinum. Die anatomischen Wachspräparate un ihr Haus, a cura di Sonia Horn,Alexander Abogin, Verlagshaus der Ärtze GmbH horn, Wien 2012 e Maria Carla Garbarino, «per il bene dell’umanità sofrente», La chirurgia di Giovanni Alessandro Brambilla (1728-1800), Cisalpino Milano 2019.
[3] Cfr. Storia della chirurgia austriaca dal 1750 al 1800, manoscritto conservato nell’Archivio Storico Civico di Pavia, Dono Nascimbene, I.
[4] Cfr. Storia della chirurgia austriaca, ms. A, c. 31 r.
[5] Cfr. Storia della chirurgia austriaca, ms. A, c. 58 r.
[6] Giovanni Alessandro Brambilla, Appendice alla storia della chirurgia austriaca, Galeazzi, Pavia 1800, pp. 2-4.
[7] Ibi, pp. 4-10.
[8] Ibi, pp. 10-17.
[9] Si trattava di Johann Nepomuk Hunczovsky (1752-1798), Gabriel von Gabriely (1744-1806), Wilhelm Böcking (1742-1804), Heinrich Streit, Joseph Jaclob von Plenk (1735-1807), Anton Beinl (1749-1820). Cfr. anche Brigitte Lohff, Die Josephs-Akademie im Wiener Josephinum. Die medizinich-chirurgischen Militärakademie im Spannungsfeld von Wissenschaft und Politik 1785-1874, Bohlau Verlag, Wien – Köhln – Weimar 2019.
[10] Cfr. Giovanni Alessandro Brambilla, Orazione sulla preminenza ed utilità della Chirurgia, Galeazzi, Milano 1787.
[11] Id., Discorso per la morte dell’Augusto Giuseppe II recitato in lingua tedesca nell’I.R. Accademia medico-chirurgica, Alberti, Vienna 1790.